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Bidental
Sotto un cielo color
bucchero leggiamo
i resti della cena,
ricostruiamo un
ciglio d’antenato,
un dito, la direzione
del prossimo nostro
andare
quando
un lampo ti illumina
gli anelli concentrici
del viso:
ti vedo
l’orecchio smangiato,
un frammento di ceramica
per mano, una lingua
che può scomparire
all’improvviso.
—
Coi visi bianchi
come licheni
facciamo nodi
all’erba prima
di scendere
nel fumo e il
suo ferro,
gli scalini
che ci affettano
le ombre.
nel bosco, Baratti
+
sono venuta a potare
prima un respiro di
acqua e poi di sasso,
a stare al passo con
l’evaporare delle alghe
sono venuta a cercare
le voci arrochite, le corde
sfilate, le tracce
che si perdono nell’erica
sono venuta a sudare
le tossine della mia storia,
a portare le spore sotto
le suole, ad aprire il
libro del lì
sono venuta a studiare
il disfare, la piega dell’erba,
a mandare avanti la coda,
a vedere il colore di un odore
in controluce
ho seguito l’altro cane che sono
cercare nella biblioteca delle ossa.
brughiera
+
La discenderia
È alla radura che si apre il fotogramma:
il tuo viso che vira al cinabro del rimpianto,
io con la mia goccia di mercurio già sul labbro.
Dal cupo della gola cerchiamo
quanto è in fondo allo specchio.
Le querce e i cerri qui sono capovolti: puntellano un sotto
che minaccia la frana ad ogni passo, gallerie
che ci portano a serrature senza porte.
L’acqua che era seccata ritrova ora il suo punto di rugiada
nel tuo polmone sinistro:
ti si riempie al ritmo della voce, porta
la luce scivolata via dagli occhi
in questi torti trafori nel passato, riporta quel verde alle foglie.
Sono vene affaticate che a volte non reggono l’ago del ricordo
che è come fulminato tra due mani che scavano radici
e allora inciampiamo per la luce infittita e
raccogliamo certi sassi
che spremuti ci riportino a gocce dentro casa.
Miniera del Siele
In quell’aprirmi al
mondo c’è il tuo
viso e il taglio
che mi ha fatta
sola:
un nodo
per ricordare
al mio piede
la tua mano.
*
Un giorno la parola
“quella“ non esce,
resta materia in attesa:
tappeto tirato via
da sotto i piedi
resti ferma cercando
di trovarne il suono
nella stanza.
*
Questo tuo mordere è
per acchiappare
il mondo, tentare
di portarne un pezzo
via con te.
*
Non c’è prenotazione
a questo viaggio:
si nasce
prenotati ed è
un continuo
fare e disfare
di valige, controllare
che fra le mani
le carte
siano tutte.
*
E’ un continuo voltarsi:
quale è la lingua
che traccia il
proseguire, la mano
che pareggia
la terra dentro
l’orma?
esserci
nell’assenza,
verticali.
*
Un fulmine, una contrazione. Pioggia come pallottole
ci tempesta da giorni, le punte degli alberi convergono
qui troppi elettroni. La tua memoria fuma, ingolfa
come nebbia ai vetri.
*
Al tavolo da ore: c’è come un vibrare di piatti all’altezza
del polso, la manica + una tenda per il sangue.
Fuori, il colore è di inverno sguinzagliato. Ritorni, tra
nuvola e suolo.
*
Il tuo respiro tagliato, annodato e ricucito: la luce ti
attraversa e tu ne bevi tutto l’ossigeno, in un sorso.
Questo tramonto ha il colore della lava che si fredda.
La terra è impastata di ombre.
*
Ti ascolto, hai il respiro pesante. Rivivi le scosse del tuo
tornare in vita. Un orecchio alla parola e uno al silenzio.
*
Giornate quando
si potesse inserire
l’alluce alla
presa: irradiarsi,
sciogliersi di luce,
riannodarsi al filamento
primo.
Quando l’occhio si oscura
non cercare il calore della
mano che la palpebra abbassa,
scappa la melodia della parola,
la voce che ti sorride coi denti rifatti.
Se la lingua è mondo, è
specchio, trovatici con la pupilla
spalancata, pescaci da quel nero
quell’inchiostro che dica la parola
verticale. Alla sua ombra crescono
domande, si fa spazio
al respiro del pensare.
Non parola orizzontale che sommerge,
ma il bianco dei margini, la pausa che
copre l’assenza tra te e me.
“Le ossa non sono poi così solide”, Museo della Specola, Firenze 2010